Multimedialità del terzo
secolo: opportunità o
illusione per i musicisti amatoriali e Dj?
A cura di Dino Frallicciardi
Ottobre 2021. Tutti i diritti riservati.
Tra i più graditi ricordi della mia adolescenza, conservo gelosamente le giornate che dedicavo (anni '80), insieme ai miei più cari amici, al rituale giro (un vero e proprio "struscio" religioso) per i vari negozi di strumenti musicali e di editoria musicale alla ricerca dell'ultimo modello di chitarra o di tastiera da provare, oppure alla ricerca degli spartiti o dei più recenti files da aggiungere al repertorio di basi midi. Come era bello trascorrere il tempo fino a sera in quel modo! Ricordo che Via San Sebastiano (Napoli) era un brulicare di musicisti che passavano tra un negozio e l'altro (all’epoca la strada ospitava tanti negozi esclusivamente di strumenti musicali) e tutti gli interessati a questa nobile arte si intrattenevano in quei luoghi, compresi tanti professionisti-VIP. Quanto è triste ripercorrere, oggi, quella via: gran parte delle insegne storiche di musica sono state sostituite da quelle di Pub e Fast-food... Ricordo altresì che ad ora di pranzo, non rinunciavamo mai alla pizza di Port'alba, accompagnata da una birretta o una coca-cola per poi riprendere nel pomeriggio la "processione" per i venditori e ritornare a casa carichi di desideri da soddisfare e di salvadanai da gestire...
Mettendo un attimo da parte le nostalgiche rievocazioni, appare indubbio che ripensare a cosa significava un tempo fare il musicista o il Dj amatoriale e confrontare quelle esperienze con quello che oggi mette a disposizione il mondo multimediale, consente di giungere alla conclusione che le opportunità degli anni 2020 sono immense! Ai tempi in cui ho iniziato ad esibirmi in pubblico, un computer ed una stampante erano un lusso per pochi. Come si organizzava una nuova canzone per il repertorio del pianobar? Nulla di più rudimentale: un mangiacassette, penna e carta; si ascoltava la canzone e, svolgendo e riavvolgendo il nastro con i tasti Play-Stop-Rew (augurandosi che non si inceppasse), pezzo per pezzo si «sbobinava» il testo scrivendo a mano in stampatello. Per i testi italiani il compito era decisamente meno faticoso e meno approssimativo dei testi in lingua straniera: quante ore passate a cercare di interpretare termini anglosassoni spesso abbozzati o sbiascicati in quelle audiocassette dai cantanti... Un inferno. Quando finalmente il testo era pronto, veniva il momento di ripetere la stessa annoiante procedura, però questa volta alla ricerca delle note, fidandosi solo ed esclusivamente del proprio orecchio e del proprio strumento musicale che misurava 1-2 semitoni sopra o sotto rispetto all'audio originale. Gli spartiti in commercio si trovavano, non vi è dubbio, ma non era poi così tanto facile acquistare proprio quello relativo al pezzo al quale eri interessato, dunque prima di suonare un brano, bisognava impegnare giornate di cammino e di ricerca tra i negozi oppure in caso di fallimento, non restava altro che rassegnarsi suddetta e fatidica “sbobinatura ad orecchio”. Anche fare il Dj, analogamente, costava tempo e fatica impiegati prevalentemente nei mercatini cittadini (dove speravi di incontrare venditori di dischi in vinile usati), oppure nei negozi di musica (se avevi disponibilità economica), oppure nelle librerie. Un altro espediente era l’acquisto dei giornalini di annunci per compravendita (come i famosi Bric-a-brac o Fieracittà) per sperare di intercettare un affare e migliorare la strumentazione o ampliare il repertorio discografico. Poi giunse il giorno in cui incontrai la musica caraibica e da qual momento la mia già rodata arte di arrangiare si trasformò in una impresa impossibile…
Oggi tutto è cambiato ed i giovani distratti che non sentono il gusto e la necessità di occuparsi della musica suonata, non si rendono conto del treno che gli passa davanti ogni giorno. Adesso tutto è più facile. Da musicista amatoriale nato negli anni ‘70 che ha sempre desiderato tutto quello che oggi risulta facilmente disponibile per tutti, guardo questi adolescenti che bivaccano per le strade e che passano ore incollati sui social ed esclamo tra me e me: «ah, se alla vostra età avessi potuto disporre di tutto quello che oggi offre la tecnologia… cosa sarei stato capace di fare!» Eppure mi giro intorno e non vedo l'ardore che provavamo noi 40 anni fa nei confronti di quest'arte. In primis oggi c'è internet. Di cosa hai bisogno signor musicista o signor Dj? Oggi c'è di tutto o quasi tutto del quale hai bisogno. E' evidente che non sono così folle da pensare che un maestro di musica o di Dj-art sia sostituibile con il web. Eppure per il pubblico amatoriale l'elenco delle risorse sarebbe infinito: video corsi online, tutorial, connettività digitale in tempo reale, testi, spartiti, tutoraggi, shop musicali e negozi di strumenti online, musica e discografie complete, streaming, biografie, recensioni, forum, community, sala prove virtuali... tutto solo ed esclusivamente a portata di click! Quanto tempo impiegavamo 40 anni fa per cercare il nostro strumento ideale, il nostro mixer o giradischi? Un mese? Adesso ci vogliono al massimo pochi giorni. Quanto tempo ci vuole, nell’era della superinformazione, per conoscere bene un artista ascoltando tutta la sua discografia scaricata dai comuni portali di diffusione musicale gratis o a pagamento? Forse al massimo una intera giornata. Durante la mia adolescenza invece, costava giorni, settimane, mesi di ricerca di incisioni, talvolta introvabili.
A questo punto, affermare che i musicisti o i Dj nati un paio di generazioni fa vivevano una maggiore immersione nella loro vocazione artistica, non è sbagliato. Quanti musicisti attuali possono affermare di avere lo stesso orecchio raffinato di quelli forgiati entro il secolo scorso? Quanti oggi possono dire di aver suonato su strumenti customizzati, talvolta recuperati dalle ceneri o dalla spazzatura? Quanti Dj del terzo secolo sanno realmente suonare sul vinile, scratchare, mettere a tempo due piatti, mixare ? Probabilmente pochi. Troppo facile fare il Dj del ventunesimo secolo con uno smartphone che ti fa conoscere istantaneamente la musica del mondo intero! Essere Dj è soprattutto ricerca e 30-40 anni fa, la ricerca costava tempo e fatica. Se oggi è molto più facile realizzare un dj set con un portatile, un controller e qualche chiavetta USB mentre un tempo si viaggiava con apparecchiature ingombranti e scatoloni carichi di pesanti dischi gelosamente conservati, tuttavia a mio avviso, non è così semplice concludere che la vera arte è finita con il ventesimo secolo. La traboccante abbondanza di informazioni, strumenti ed opportunità dati dalla multimedialità di questi giorni, in molti casi coccola gli artisti, nel senso che tanti nelle stanze virtuali possono imparare in fretta e diventare rapidamente autonomi e disponibili al pubblico, ma in tanti altri casi, la stessa abbondanza si traduce, paradossalmente, anche in una diffusa e percepibile perdita di qualità, di fantasia e di originalità.
Il peccato più grande che possono commettere i giovani musicisti dell’era multimediale è guardare alle potenzialità del digitale e dei social network come ad un punto di arrivo e non come un punto di partenza, così come lo spartito, o il mangiacassette per noi negli anni ottanta sono stati l'inizio di miglioramenti esponenziali che sarebbero venuti con il tempo. Negli anni '80-'90 le nostre passioni per la musica le abbiamo cresciute con il sudore della fronte e per questo motivo la conclusione del mio ragionamento si delinea proprio in queste ultime righe: ritengo che le possibilità multimediali degli anni 2020 possono trasformarsi in oro colato solo se accolte dalle mani di chi realmente impiega il proprio tempo per migliorarsi costantemente per amore verso la musica, non di certo se trafugate dalle mani di chi banalmente è intenzionato esclusivamente alla marginale esperienza di facciata per agguantare likes sui social network. Oggi chi davvero arde di passione per la musica ed ha voglia di approfondire ATTIVAMENTE, non passivamente questo mondo, ha grandi, grandissimi margini di crescita.
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (sito creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
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El suave pintor del Merengue:
Elvis Crespo
A cura di Dino Frallicciardi
Settembre 2021. Tutti i diritti riservati.
Quando nei locali di balli caraibici partiva un canto, da fermo, con la parola “Suavemente!”… accadeva che all’istante, gran parte delle persone presenti a bordopista o sedute, spiccavano il volo cantando, in risposta, la parola “Besame!”… Nel 1998 questa canzone lanciata da Elvis Crespo si affermò come qualcosa molto più che un tormentone e rappresentò, a mio avviso, il momento di massimo gradimento del Merengue in Italia.
Sì, il merengue, questo ritmo ultimamente tanto snobbato dai dj e dal pubblico danzante salsero. Eppure a me fa ancora impazzire e ad essere sincero, mi manca una esperienza di ascolto live, considerato che al guardare video “en vivo” su youtube sembra presentarsi con una atmosfera travolgente.
Elvis Crespo è uno dei principali predicatori del merengue nel mondo: è uno degli artisti latini la cui musica è stata suonata letteralmente ovunque ed è stato il primo artista tropicale latino a vantare il singolo musicale del genere “Tropical” più presistente in classifica in cima a Billboard. La sua musica è stata utilizzata nel marketing della Coca-Cola; la nazionale spagnola di calcio celebrò la vittoria del Campionato del mondo 2010 cantando una delle sue canzoni (Pintame), e persino il presidente Barack Obama si scatenò con la sua musica agli Hispanic Congressional Caucus Awards a Washington DC.
Elvis Crespo (il nome per la passione per Presley nutrita in famiglia) è nato il 30 luglio 1971 a New York ma trascorre gran parte della sua infanzia quasi completamente in Puerto Rico, trasferendosi sull’isola all’età di 6 anni con la madre. Aspirante giocatore di football, nutriva la passione per la musica e per il canto. Nella metà degli anni ’90 occupava già un posto da corista nelle formazioni locali di merengueros: a 17 anni nell'orchestra di Willie Berrios; di seguito viene ingaggiato da Lenny Pérez e Grupo Uno e poi con Tono Rosario. Diventa finalmente voce principale nel Grupo Manía, ricuotendo successo con i brani “Ojitos bellos” e “Linda es”. Il vero lancio sullo scenario mondiale avviene ad opera di Sony che lo impiega nell’album “Suavemente” prodotto nel 1998. Suavemente balza al primo posto della classifica Hot-Latin-Songs di Billboard e rimane lì per 7 settimane, diventando la canzone tropicale più longeva in cima ad una classifica nazionale. Di fatto Crespo rappresenta, nel pool degli artisti caraibici in Sony, il primo del genere Tropical a vendere oltre un milione di copie negli Stati Uniti e oltre 4 milioni in tutto il mondo.
Nel 1999, forte del successo riscosso l’anno prima, si ripresenta con “Píntame”, un album che comprende anche “Por el caminito” ed altre canzoni contenenti messaggi sociali come “Pequeño Luis” contro la violenza sui bambini. Nel 2000 esce “Wow Flash” e due anni dopo “Urbano”, contenente “Báilalo” e “La cerveza”, un album che rivela anche la versatilità del cantante che dimostra di non essere legato essenzialmente al merengue tradizionale. Nel 2004, pubblica il lavoro “Saboréalo”: il primo singolo, “Hola Enamorada” sale in vetta alle classifiche latine di Billboard e gli vale un Latin Grammy. Nel 2008 raggiunge il primato di essere il primo artista latino a registrare un album dal vivo a Las Vegas: arriva dunque "Live from Las Vegas". Nel 2009 esce allo scoperto come scrittore-produttore, lanciando il lavoro di debutto di Zone D'Tambora, un gruppo da lui stesso formato in Porto Rico. Nel 2010 Elvis Crespo presenta "Indistruttibile". Nel maggio 2012 va in vendita "Los monsters" (collaborazioni con El Cata, Zone D´ Tambora, Illegales e Joseph Fonseca) con il quale Crespo torna sui temi sociali ed in particolare affronta il problema del bullismo scolastico con la canzone "Yo no soy un monstruo". Nel 2013 prova a scavalcare definitivamente i confini del pubblico latino con l’opera "One flag" (collaborazioni con Emilio Estefan, Nacho, del duo Chino & Nacho, Pitbull in “Sopa de Caracol”). Pitbull avrà dunque un ruolo importante nella formazione di Crespo come produttore. Nel 2016, infatti, l’intuizione discografica di voler fondere il merengue con elementi provenienti dal pop, EDM e techno, si rivela molto interessante: la sua prima collaborazione con DJ Deorro, il brano "Bailar", diventa numero uno in 10 paesi in Europa e la Top 40 nelle classifiche Hot-100 di Billboard, nonché il numero uno nelle classifiche ITunes e Shazam. Nel 2018 l’esperimento si ripete, questa volta, insieme a DJ Steve Aoki ed al grandissimo Daddy Yankee, proponendo "Azukita", prodotto da Play-N-Skillz e ricevendo diversi dischi d'oro e di platino in tutto il mondo, superando i 42 milioni di stream su YouTube e ricevendo una nomination al Latin American Music Award per Favorite-Tropical-Song. Nello stesso anno, anche una nomination ai Latin Grammy 2018 per il suo album “Diomedizao” nella categoria Best Contemporary-Tropical-Album.
Crespo ha trascorso in tutti questi 25 anni di carriera, praticamente quasi sempre in tournee ed ha saputo appropiarsi con destrezza degli spazi televisivi e di alcune produzioni cinematografiche. Una vita sentimentale movimentata con il susseguirsi più relazioni stabili e diversi figli.
Non c’è da stupirsi se uno dei più grandi esponenti del merengue provenga anche da Puerto Rico e non esclusivamente dal Santo Domingo ritenuta culla del noto ritmo caraibico. Il merengue in Puerto Rico è un fenomeno molto apprezzato. Pur riconoscendo il primato e l’orgoglio domenicano, esistono alcune ipotesi storiche che vedrebbero nell’Upa (danza Avanera trapiantata a Porto Rico alla fine del secolo IXX e poi importata Repubblica Dominicana) il progenitore del merengue. Ad ogni modo il merengue in Porto Rico vanta una lunga tradizione a partire da Joseito Mateo, poi Johnny Ventura (inizio degli anni '70), alla famosa Quisqueya Ensemble, a Jossie Esteban, Ringo Martinez (Patrulla 15), Los Sabroso del Merengue, Arnaldo Vallayanes, Manny Manuel, Joseph Fonseca. Elvis Crespo è cresciuto formandosi insieme a merengueros del suo quartiere con Willie Berrios, Wilfrido Vargas innamorandosi di un ritmo nel quale ha poi creduto per tutto il lungo tempo della sua carriera. Ancora oggi, nelle sue numerose interviste, Crespo continua a prevedere l’immortalità del merengue e dei ritmi tropicali in genere. Altri artisti che hanno influenzato la sua formazione sono: Gilberto Santa Rosa, El Gran Combo, Frankie Ruiz, Tony Vega, Willie Rosario, Eddie Santiago, (Crespo non ha mai disdegnato anche il cantare salsa, bachata o balada).
Elvis Crespo sa bene di non essere nato vocalmente dotato: non ha una ugola virtuosa, non ha una affintà per le intonazioni melodiche, eppure è riuscito a trasformare il suo timbro sostanzialmente ritmico in una presenza colorata e martellante, intensa e sfrontata nel riempire gli spazi del frenetico ritmo caraibico merengue: una voce calda, appassiomata e travolgente. E’ soprattutto sul palco che l’artista mostra le sue migliori ed indiscusse qualità: non è facile intrattenere il pubblico, tenendolo vivo e partecipe con la stessa vivacità dal primo all’ultimo minuto della sessione. Un “animale da palco” dunque. Devo essere sincero: amavo la musica di Elvis Crespo già limitatamente all’ascolto in casa, al ballarla nei locali o durante i mixing eppure spesso rischiavo di restare in parte perplesso dalla ripetitività o scarsa originalità di alcuni suoi album nei quali, si avverte la quasi svogliata esigenza di rinnovare i nuovi pezzi con ricercate melodie (questo in parte si giustifica con il rispetto della tradizionalità del genere), eppure dopo averlo apprezzato dal vivo sui social network, ho capito che la vera originalità, un grande artista, la dimostra sul palco. Pertanto Elvis Crespo resta, indiscutibilmente un grande nome della musica sudamericana e modiale. Di tutto quello che di suo ho ho ascoltato, preferisco particolarmente: “Suavemente” (ovviamente), “Vuelve Conmigo”, “Mas que una caricia”, “Te vas”, “Eres tu”, “Nuestra Cancion”, “Bandida”, “Pintame”, “Tatuaje”. Apprezzo anche tanto la sua abilità nell’affiancare le sfumature urbane internazionali alla tradizionalità del suo genere. Spinto anche dai consigli e dalla sapienza di Pitbull è risucito a conciliare bene le “esigenze del mercato” con l’evoluzione globale del merengue. In tal senso, ritengo davvero accattivanti i successi: "Azuquita", "Algo Heavy", "La Novia Bella", "Festa Rica", "Imaginarme sin ti".
Il merengue nel 2016 fu dichiarato patrimonio dell’UNESCO e molto probabilmente, anzi, sicuramente ha ragione Elvis Crespo sulla opinione questo ritmo non morirà mai e tornerà ad avere nuove riscoperte e nuovi boom mediatici e culturali nonostante…i noti e disparati pregiudizi di dj, musicisti, maestri ed uomini di eventi e spettacoli…
Discografia: Suavemente (1998), Pintame (1999), The Remixes (1999), Wow! Flash (2000), Urbano (2002), Saboréalo (2004), Hora Enamorada (2005), Regresó el Jefe (2007), Me Gusta Me Gusta Elvis Crespo: Live in Las Vegas (2008), Mis Favoritas (2010), Indestructible (2011), Los Monsters (2012), One Flag (2013), Ole Brazil ft. Maluma (2014), Tatuaje (2015), Bailar (2016), Elvis Crespo - Guayo ft. Ilegales (2017), Veo Veo (2018), Azukita (2018, feat Daddy Yankee, Steve Aoki, Play n Skillz), Diometizao (2018), Pica (2019 ft. Deorro), Pintame (2019 ft. Gabriel), Imaginarme sin ti (2021 feat Manny Cruz), La foto, Se Me Borrò (2020 feat Ryan Milo).
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (sito creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
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Riferimenti:
sofokelatino.com
buscabiografias.com
cmtv.com.ar
elviscrespolive.com
cicagho.gopride.com
allmusic.com
bmi.com
ritmomerengue.blogspot.com
wikipedia.com
Il ruolo del
Flauto traverso
nella musica latinoamericana
A cura di Dino Frallicciardi
Luglio 2021. Tutti i diritti riservati.
La “flauta”, così come viene chiamato nelle orchestre latine è molto presente nella musica latinoamericana: spesso utilizzato per arricchire l’arrangiamento, in particolare il flauto traverso trova frequentemente anche spazio come protagonista nel canto principale o nell’assolo.
Il flauto è uno strumento antichissimo, considerato, insieme alla cetra, tra i primi ad essere stati suonati dall’uomo: appartiene alla categoria dei “legni” anche se successivamente è stato costruito in materiale diverso (porcellana, plastica, metallo). Viene classificato anche come “aerofono labiale o aerofono ad imboccatrura naturale”. Diversamente da suoi simili quali clarinetto o l’oboe, i flauti non presentano all’imboccatura un’ancia ma la stessa funzione viene sostituita o da un fischietto (labium) o semplicemente da un foro di ingresso. I flauti traversi vengono suonati, appunto, in modo trasverale rispetto al musicista che lo impugna (di solito verso destra). Una variante di questo concetto di posizione “fuori asse” è rappresentata dal “flauto con imboccatura ad una estremità”: anch’esso è privo di labium ed il suo più tipico esempio è il flauto di Pan, molto diffuso nelle regioni andine.
Per motivi puramente convenzionali è possibile individuare due filoni cronologicamente paralleli che giungono alla stessa conclusione di inserire stabilmente il flauto traverso nelle formazioni latinoamericane: il contesto tradizionale-folcloristico ed il contesto jazzistico (e post-) degli ambienti artistici musicali nordamericani. Il primo filone non consente in verità una ricostruzione di un ordinato percorso storico-evolutivo, pertanto ci limitiamo, in questo articolo, a ricordare i flauti in legno o metallo caratteristici dello stile campesino, del changui, son, della musica brasiliana e della musica di sala danzante; includiamo in questo elenco anche il flauto di Pan, intramontabile nella musica andina. Tutti gli esempi citati sono accomunati dalla non avvertita necessità, da parte dei musicisti, di amplificare il volume del suono riprodotto. Il flauto è stato infatti tra gli elementi caratteristici delle charangas, ovvero delle ensemble tradizionali, in particolar modo cubane, che negli anni '40 hanno iniziato a sostituire gli strumenti musicali più classici con altri di provenienza europea (come il violino). L’esempio più tipico di questa trasformazione è il Danzón. Nel filone che riguarda, invece, il laboratorio d’ispirazione nordamericana, facciamo prevalentemente riferimento all’interessantissimo mutuo scambio avvenuto tra jazz e musica latina nella seconda metà del secolo scorso, quando venivano messo in comune: le particolari sonorità, i pattens, le particolari armonie, le abitudini e gli strumenti, compreso il flauto traverso che in entrambi i mondi ha assunto un protagonismo crescente.
La forma moderna del flauto (cilindrico, a dodici o più chiavi) è un discendente dei flauti barocchi modificati poi successivamente dalla scuola tedesca di Theobald Boehm nel XIX° secolo e dopo ancora, dalla scuola francese. In metallo, è costituito da tre parti principali: testata, corpo centrale e trombino. La tipologia maggiormente utilizzata è il flauto traverso in Do che possiede un'estensione che va dal Do centrale Do_3 (o da un semitono sotto Si_2) fino al Re_6 (comprende più di 3 ottave). I flauti moderni possono raggiungere un'estensione di tre ottave e mezza.
Il flauto traverso, come abbiamo già anticipato, esordisce come figura solista nelle formazioni jazz soltanto negli anni ’30 e questa novità coincide con la possibilità tecnica di microfonare questo strumento che soffriva, inevitabilmente, i sovrastanti decibel degli altri elementi: erano evidentemente preferiti il sassofono, le trombe ed i tromboni decisamente più potenti. La maggior parte degli storici musicali concorda con il fatto che la prima registrazione jazz, contenente un intervento di flauto, è rappresentato dall’assolo interpretato in Newyork, dalle mani del clarinettista Alberto Socarras (guarda un po', cubano di nascita…) nel brano “Shootin the pistol” (1927) dell’unsemble del maestro Clarence Williams. Socarras successivamente prosegue il suo progetto con nomi altisonanti del calibro di Cab Calloway, il percussionista cubano Mongo Santamaria ed addirittura il famosissimo trombettista Dizzy Gillespie (tra i padri fondatori del Bebop). Proprio nel corso di questa collaborazione pare che Gillespie abbia saggiato la conoscenza della musica afrocubana. Tuttavia il vero primo flautista jazz a tutto spessore viene individuato in Wayman Carver: già sassofonista ed autore a partire dagli anni ’30 di "Loveless love" (con Dave Nelson), inoltre di "How come you do me like you do?", di "Sweet sue, just you" (con Spike Hughes nel 1933), e di "Devils' Holiday" (con il notissimo Benny Carter). Altro pioniere flautista jazz da ricordare è Jerome Richardson, interprete in voga negli anni’ 40. Proprio in questi anni si verificano due processi molto significativi per il futuro di questo strumento: da un lato il netto miglioramento delle tecniche di amplificazione e dall’altro l’incontro tra il meraviglioso movimento Bepop decollato grazie al grandissimo sassofonista Charlie Parker (e il pianista Bud Powell) e le sonorità ed i ritmi latinoamericani. Fondamentale va considerato anche il contributo di Herbie Mann, ritenuto tra i primi flautisti jazz determinati nel presentarsi al grande pubblico esclusivamente in compagnia del flauto ma soprattutto è indubbio il suo interesse verso la contaminazione con la cultura Latina e la musica etnica in generale. In questa fase di grande integrazione musicale, il flauto incontra anche la Bossanova brasiliana ritenuta perfetta, con la sua grazia e le sue intricate armonizzazioni, per il flauto: vanno mensionati i brani "Do the bossanova" sempre di di Herbie Mann e “The la four scores” di Bud Shank con Laurindo Almeida alla chitarra.
A partire dagli anni ’50 in Newyork, la popolarità del jazz cresceva a dismisura ed il flauto traverso acquistava l’interesse vivo di tanti musicisti famosi che si esibivano incessantemente nei locali della gande metropoli: Sidney Lanier, Clemente Barone, Depestre Salnave, Norvel Morton, Max Farley, Hal McLean, Vincente Capone, Jack Bell, Roy Mayer, Frank Wess. Se da una parte, l’evoluzione naturale del Danzon permetteva a questo strumento a fiato di percorrere ancora tanta strada (vedi ad esempio l’esperienza di Josè Antonio Fajardo o di Miguel O’Farril), accadeva anche che negli anni ’70, la nota, affascinante promisquità tra jazz e musica caraibica ne favoriva l’inevitabile inserimento all’interno delle orchestre ricche di musicisti cubani, portoricani, domenicani: proveremo a menzionare gli uomini che con grande professionalità hanno consentito al dolce suono del flauto traverso di poter assumere un ruolo prestigioso nella musica latinoamericana. Nominarli tutti sarebbe impossibile anche perché appartengono ad un intero continente, tuttavia è inevitabile che maggiore attenzione cada sugli interpreti cubani. Ad ogni modo gran parte di questi grandi artisti ha ricevuto premi prestigiosi, compreso vari Grammy. Miguel O'Farril (1916) è stato flautista all’interno della storica orchestra di Enrique Jorrin (principale sperimentatore/inventore del Chachacha). In questo ambito, va citato anche il contributo di José Antonio Fajardo (1919), flautista cubano, anch’egli promotore del chachacha durante gli anni '50 (Fajardo y sus estrellas) collaborando anche con Johnny Pacheco. Come non ricordare, infatti, Pacheco, il mitico flautista domenicano, produttore e fondatore del FANIA All Stars. Altro domenicano, in tal senso, è anche Jose Alberto (1958) che viene ricordato come “El Canario” per la sua capacità di imitare il suono del flauto traverso con una naturalezza strabiliante. Jose Luis Cortes (detto “El tosco”) offrì la sua esperienza nel flauto traverso prima con i Los Van Van, poi successivamente da solo, con il proprio gruppo NG La Banda, diventando artefice del decollo della timba con i suoi ricchi arrangiamenti basati su questo strumento. Tuttavia non va dimenticato Orlando Cantò (1937) che è stato, insieme a Juan Formell il fondatore dei Los Van Van, nonché colui che ha verosimilmente delineato il sound tipico del gruppo: i Los Van Van hanno standardizzato intorno al flauto, uno stile musicale inconfondibile al punto che a volte basta ascoltare le prime note dell’arrangiamento di una canzone per capire immediatamente che si tratta di un brano degli uomini di Formell. Nel 1995 è Jorge Leliebre che prende il posto di Cantò per continuare la lunga, leggendaria, storia artistica. René Lorente (1948) è un eccezionale musicista strumentista cubano che sostituì Richard Egües, dopo il suo ritiro avvenuto nel 1984, dopo 22 anni brillanti di successi internazionali nell'Orchestra Aragón e dopo essersi dedicato alla produzione discografica autonoma con: René Lorente y su Charanga Cubana. Nomi altisonanti che hanno contribuito al firmamento carrieristico dell'Orchestra Aragon sono: Eduardo Rubio e Richard Egues (1924). Orlando "Maraca" Valle (1966) flautista cubano, inizia ben presto a suonare con Irakere di Chucho Valdés, ottenendo anche varie collaborazioni con grandi jazzisti come Dizzy Gillespie , Paquito D'Rivera, Chick Corea; partecipa alle produzoni degli Afro Cuban Jazz Project e Maraca & Afro-Cuban Jazz Masters. Con i suoi gruppi Maraca Salsa & Latin Jazz band ha suonato sui più rinomati palcoscenici mondiali, raccongliendo consensi ovunque, al punto di essere considerato l’attuale re della musica jazz-fusion afrocubana. Dave Valentín (1952), flautista figlio di portoricani emigrati in Newyork è stato uno degli artefici della fusione della musica latina con il jazz negli anni ’70; per diversi anni è stato direttore musicale dei Golden Latin Jazz All-Stars di Tito Puente. Néstor Torres (1957) è un flautista jazz nato a Porto Rico, fondatore e direttore del primo ensemble di charanga della sua School of Music. Altamiro Carrilho (1924) flautista brasiliano, direttore d’orchestra, arrangiatore, esponente della musica Choro, ha dato un grande impulso alla impronta culturale musicale della bossanova e del samba. Danilo Caymmi (1948) è un chitarrista, flautista, cantante e compositore brasiliano: è ricordato per il tono molto romantico delle sue ispirazioni: ha scritto molti brani interpretati poi dalle più grandi stelle della musica carioca; vanta collaborazioni con Chico Buarque, Gonzaguinha, Dori Caymmi, Nana Caymmi, Dorival Caymmi, Antônio Carlos Jobim e Milton Nascimento.
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (sito creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
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Alcune informazioni sono state tratte dalla rete.
Riferimenti:
peterguidi.com
knkx.org/post/jazz-caliente-focus-flute
wikipedia
Dal twist al mambo
al boogaloo al bolero...
Cerimoniere e testimone
di una genesi:
Tito Rodriguez
A cura di Dino Frallicciardi
Luglio 2021. Tutti i diritti riservati.
Tito Rodriguez è stato uno dei grandi padri della musica caraibica curata ed arricchita nel meraviglioso laboratorio newyorkese. Artista di nascita portoricana, l’“Inolvidable" (l'indimenticabile), così come veniva soprannominato (in riferimento al titolo di uno dei suoi piu noti successi, ovvero il brano scritto dal maestro Julio Gutiérrez) è stato una delle anime protagoniste dello sposalizio tra musica jazz ed afroispanica, pioniere dell’uso sperimentale della Big Band nordamericana per raccontare in modo nuovo i ritmi del bacino sudamericano. Ha avuto il grande merito, insieme a Tito Puente, Machito, ed altri colleghi esponenti del genere, di aver tramandato un testamento culturale musicale, poi utilizzato dalle generazioni immeditamente successive. Prima ospite presso altre orcheste, poi successivamente, con la propria formazione, la Mambo Devils, prende possesso dei palchi dei grandi teatri e dei più famosi locali della città americana, compreso il leggendario Palladium, incrociando i passi di grandi artisti come Cachao Lopez (sua prima esibizione in New York) i sassofonisti Mario Rivera, Bobby Porcelli e Aaron Sachs, i trombettisti Víctor Paz, Frank Lo Pinto ed Emilio Reales, i pianisti René Hernández e Eddie Palmieri, la vocalist Myrta Silva, i percussionisti Mike Collazo, Manny Oquendo, Marcelino Valdés, Johnny Rodríguez, Bobby Valentin (allora trombonista), Charles Palmieri, Arsenio Rodríguez, Miguelito Valdes, Sonora Matancera, Cheo feliciano, Joe Cuba. E’ nota l’aneddotica leggenda di antagonismo con le vicine orchestre di Tito Puente e Machito, a suon di guaracha, mambo, chachacha e notti di musica e ballo senza un domani. Con “El rey del timball” (Puente) poi, non condivide soltanto la scena ma anche la casa discografica e questa rivalità veniva rappresentata anche attraverso le proprie canzoni, disegnate a mò di guanto di “sfida”. Ne sono alcuni esempi: “Avísale a mi contrario, que aquí estoy yo” e “Que pena me da”…titoli molto eloquenti…
Possiamo dire che risulta difficile individuare un ritmo afroamericano e latino che non sia stato suonato da Tito Rodriguez e dai suoi: jazz, twist, pachanga, chchacha, mambo, bossanova, boogaloo, bolero. Tanti brani celebri sono stati portati alla ribalta dal suo genio ed hanno fatto il giro d’America. Tante proposte, spesso interpretative di brani ideati da Jose Curbelo e tanti altri: "Vuela la paloma," "El que se fue,", "Sun sun bae bae", "Mambo y cha cha cha", "Baranga," "Yo soy tu dolor," "Cara de Payaso," "Fiesta de besos," "Avísale a mi contrario," "Fue en Santiago," "Cuando, cuando" (dei nostri italiani Tony Renis e Alberto testa). Come vedremo, per motivi diversi, Rodriguez ha dedicato una lunga parentesi della sua carriera al Bolero e per tale motivo è stato accostato quasi come icona di questo genere musicale. Tito Rodriguez è caratterizzato da una una voce calda, composta, che non si concede ad eccessivi virtuosismi vocali restando verso una ricercata simbiosi con tutto il resto della formazione musicale. Molto legato alla importanza della performance “en vivo”, tanto e vero che ha registrato molto di quello che ha suonato in contesti live. La spiccata duttilità dell’artista si spiega con il comune senso di orientamento nelle ritmiche che è appannaggio di maestri di musica che hanno studiato percussioni. Tanti critici manifestano stupore proprio nella capacità di Tito Rodriguez di trovarsi a proprio agio sia nell’interpretare un frenetico mambo, una guaracha o un boogaloo, sia nel celebrare le morbide melodie di un bolero. Eppure ad un certo punto della sua vita professionale ha avvertito, sensibilmente, che un fenomeno discografico dalle proporzioni inimmaginabili (la Salsa) stava per esplodere davanti all’enorme percorso che aveva tracciato fino a quel momento. Il sodalizio con Fania All Stars non ha mai avuto motivo di potersi consolidare per due motivi. Innanzitutto il rapporto con Johnny Pacheco (fondatore) non è stato mai idilliaco perché pur avendo impiegato quest'ultimo in qualità di arrangiatore in più occasioni, in realtà l’alternanza con Tito Puente ha generato qualche problema di rivalsa tra le due formazioni. In secondo luogo, mentre Fania nasceva, si slatentizzava anche la malattia di Rodriguez: pare che abbia anche rifiutato l’invito a partecipare alla registrazione del primo disco del fortunatissimo fenomeno musicale. Tuttavia, dopo la morte del maestro portoricano, non sono mancati i tributi da parte di tutti, talora, montando duetti utilizzando aposteriori la sua voce registrata: la stessa Fania, Danny Rivera, Chucho Avellanet, Gilberto Santa Rosa (suo grande estimatore) e tanti altri. Appare evidente che nella sua carriera, spesso, Tito Rodriguez si è trovato nelle condizioni di dover accettare scelte tecniche dettate da esigenze discografiche imposte dal predominante business. Un esempio è il desiderio e dunque la possibilità, mai concessa, di cantare i bolero su arrangiamenti basati sulle chitarre: non è mai stato accontentato, eppure dopo venti anni dalla sua morte, le etichette discografiche Palacio de la Música e West Side Latino hanno concepito l'idea di materializzare questa preferenza nel CD "Eternamente".
Di tutta la discografia che ho ascoltato di Tito Rodriguez, è inutile negare che ho amato tanto le numerose esibizioni dal vivo di brani della prima scuola newyorkese costruiti sulla guaracha, sul mambo, chachacha, boogaloo. Mi entusiasmano molto: l’album “Latin twist” (“Mama Inèz”, “Tabu”), l’album “Carnival of the Americas” tutto, l’album dal vivo “Live at birdland”, la celebre (e direi attualissima ancora sulle piste) “Sun Sun Bae Bae” (ripresa anche dall’ottimo figlio-artista Tito Rodriguez Junior), ma anche “Habanecue guapachando”, “A los muchachos de belen”, “Yambu”, “Boco boco”, “El campanero”. Del periodo bolero mi piacciono molto gli album “En la oscuridad” e “With love”.
Nato in Puerto Rico (Santurce, Porto Rico, 4 gennaio 1923), Pablo Tito Rodríguez Lozada, figlio di padre domenicano e madre cubana, cresce predestinato verso la carriera artistica musicale, finchè già in età adolescenziale riesce ad inserirsi in formazioni musicali: prima nell’ Ensemble National Sexteto e successivamente nel Conjunto de Industrias Nativas, con il quale, grazie alla disponibilità del maestro Ladislao Martínez, registra la sua prima canzone (“Amor perdida” nel 1937). Di li a poco, entra nel Cuarteto Mayarí (Manuel Jiménez e Francisco "Paquito" Sánchez alle chitarre e Plácido Acevedo alla tromba) cantando e suonando le maracas. A causa della grande depressione economica che si abbatte sull’isola di riflesso alla situazione statunitense, nel 1939, Tito decide di raggiungere il fratello Johnny, musicista anch’egli in New York. Nella città delle opportunità, dopo una breve collaborazione con Jhonny Rodriguez, passa attraverso diverse formazioni musicali: prima con il Marcano Quartet, poi con il Cuarteto Caney prevalentemente come percussionista. Nei primi anni di NewYork, oltre ad esibirsi, Tito inizia un percorso di studi musicali sul canto, percussioni, vibrafono e xilofono, con il professor Moe Goldenberg e presso il conservatorio Juilliard School of Music; nel 1952 riceve anche una menzione d'onore dal "Century Conservatory of Music of New York" come interprete. Nel 1942 Rodríguez canta nell'orchestra più nota del momento, diretta dal maestro Xavier Cugat , per sostituire il già famoso cubano Miguelito “Babalú” Valdés . Con Xavier Cugat, Rodríguez registrò un singolo di Noro Morales, "Bim Bam Bum”. Ma la vera occasione si presenta l’anno dopo il servizio militare, quando in seguito ad un periodo di collaborazione con l’orchestra di Noro Morales (con il quale registra tre LP con l'etichetta Seco nel 1945), il pianista e compositore cubano José Curbelo lo accoglie nella sua orchestra come percussionista e cantante. L’esperienza con Curbelo gli consente anche di conoscere, nel corso delle sue esibizioni, una artista americana-giapponese, Tobi Kei, che sposa per concepire, insieme a lei i figli Tito Junior (oggi anch’egli artista) e Cindy. Purtroppo gli impegni correlati con le esigenze familiari diventano motivo di rottura con il maestro Curbelo e Rodriguez si trova costretto a riorganizzare la sua carriera professionale ed a mettere in piedi la prima orchestra interamente condotta dalla sua direzione: la Mambo Devils, un nome che evocava inequivocabilmente quello che rappresentava il ritmo più in voga del momento. La notorietà gli consente di ottenere anche un contratto discografico, prima con l’etichetta Tico Records, incidendo un disco sotto il nome di Los Lobos del Mambo, poi nel 1953 con la RCA Víctor, incidendo un lavoro sotto il nome, invece, di Tito Rodríguez y su Orquesta, ed infine, nel 1960 compagnia United Artists, per far uscire l’album "Live at the Palladium".
Nel giugno 1962, Rodríguez e la sua band tornano a Puerto Rico, omaggiati alla comunità intera dell’isola ed in quell’occasione registrano un altro live per l’occasione. Nel 1963 regista ancora un disco live ambientato nel Latin Jazz al Birland club di New York, intitolato “Live at Birland”: compaiono nomi di jazzisti come Bob Brookmeyer, Al Cohen, Bernie Leighton, Zoot Sims e Clark Terry.
A partire dal 1964, Tito Rodriguez, in seguito ad una serie di complicati rapporti professionali con la sua etichetta ed i musicisti, decide di accettare la proposta della casa discografica che chiedeva al cantante di collaborare con il regista, musicista e compositore Leroy Holmes: quest’ultimo è in possesso di una visione ispirata del genere latino romantico a partire dal bolero, fino alla balada e dunque prova a rivoluzionare completamente lo stile musicale delle produzioni discografiche di Tito. Famoso resta l’Album “From Tito Rodríguez with Love” che comprende il famoso bolero "Unforgettable". Tito Rodriguez diventa dunque un cantante di riferimento per questo genere di musica sentimentale e la collaborazione con Holmes sembra quindi funzionare al punto di garantire l’uscita di una decina di LP di bolero contenenti brani famosissimi come "Un cigarrillo”, “La lluvia y tú", "Ya son las doce", "Llanto de luna", "En la oscuridad", "Tu pañuelo".
Nel 1966 torna a Portorico per dedicarsi alla attività televisiva in un programma, sempre di proprietà dello United Artist ma la sua ambiguità con gli ambienti nordamericani non gli permette mai di affrontare serenamente il pubblico. Torna dunque in New York per riprendere la produzione discografica con l’album "I'm Like Never". Quando la rivalità con il suo collega Tito Puente sembra essere tornata ai fasti degli anni precedenti, Tito Rodriguez avverte i primi sintomi di una grave malattia (leucemia) nel corso delle sedute di registrazione di “El Doctor”, un progetto musicale contenente un singolo intitolato “Esa bomba”. Nel 1969, Rodríguez decide di fondare una propria casa discografica, la T.R. Records e di inaugurare con la incisione di un album che contiene una remake di Unforgettable ed inediti, tra i quali “Amor no es solo sexo”. Altri Lp di sua produzione sono "Don fulano", "En la soledad". Nonostante l’avanzamento della malattia, Rodriguez sembra intensificare ogni iniziativa che gli avrebbe permesso di interagire con il proprio publico: nel 1972 celebra i suoi 25 anni di carriera con uno spettacolo presso il club "El Tumi" di Lima, in collaborazione con il maestro Lucho Macedo (di questo concerto rimane un Lp che in sostanza rappresenta l’ultima registrazione en vivo dell’artista); nel 1973 va in scena la sua ultima esibizione con l'orchestra di Machito presso il Madison Square Garden il 2 febbraio. Le ultime energie spese per questo evento si concludono qualche giorno dopo con un ricovero in ospedale, finchè il 26 febbraio 1973 muore e, così come per volontà del cantante, i suoi resti vengono condotti a Puerto Rico contornati dalla solidarietà di tutti i suoi colleghi, compresi i suoi più grandi “rivali” del Palladium.
DISCOGRAFIA: El que se Fue, Mamaguela, Cuando Cuando, Abarriba Cumbiaremos, Barranga, Tiemblas, En la Oscuridad, Que Sera, Hoy te Canto, Mio, Buscando la Melodia, "Tito Rodríguez Live at the Palladium" (1960), "Charanga, Pachanga" (1961); "Tito Returns to the Palladium – Live" (1961), Latino "Latin Twist" (1962), "Tito's Hits" (1962), "Let's do the Bossanova" (1962), "Tito Rodríguez from Hollywood" (1963), "Tito Rodríguez Live at Birdland" (1963), "From Tito With Love" (1963), "Carnaval de las Américas" (1964), "En la Oscuridad" (1965), "Esta es mi Orquesta" (1968), "Inolvidable" (1969),”Tito Dice... Sepárala También" with El Sexteto La Playa (Fania, 1971), "Nostalgia con Tito Rodríguez" recordings from ( Fania, 1972), "Tito Rodríguez con la Rondalla Venezolana: Eternamente" (1993), “Cindy & Tito Rodríguez: Alma con Alma" (1995), "Tito Rodríguez con la Rondalla Venezolana: Nuevamente Juntos" (1999).
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La sublimazione delle
voci nella musica
caraibica ad opera
del controcanto
A cura di Dino Frallicciardi
Giugno 2021. Tutti i diritti riservati.
Un aspetto legato alle parti cantate delle canzoni caraibiche che ne aumenta la gradevolezza di ascolto è il ricorso, quasi irrinunciabile, da parte degli arrangiatori ed degli interpreti, alle cosiddette “seconde voci” (talvolta anche “terze voci”). Volendo utilizzare una terminologia più appropriata, si sta facendo riferimento alla tecnica del CONTROCANTO (o discanto o contrappunto). Esistono delle differenze tra questi tre termini che tuttavia identificano una modalità polifonica di comunicazione dell'espressività vocale, è sono essenzialmente di tipo storico: infatti tra il sec. X e il XIV si diceva discanto anche ciò che tra il IX e il X si diceva organum, e dal XIV in poi contrappunto. In cosa consiste, nella sostanza, la tecnica del controcanto? Riguarda l’utilizzo di più voci contemporanee, estrapolate su precisi intervalli di scala (es di terza, di quinta) volte ad accompagnare/enfatizzare la voce solista oppure a coesistere con essa come co-protagoniste. Il primo caso è molto più diffuso, ad esempio, in parti cantate della salsa, del reggaeton e di tanti altri generi musicali, tra i quali la musica leggera. Il secondo caso invece è tipico, ad esempio, del Son (cantato a più voci) o della bachata, del bolero o dei duetti in genere. Chiaramente questa sublime abitudine di intonare ed interpretare le canzoni caraibiche è il risultato della già nota eredità storico-culturale che le popolazioni sudamericane hanno ricevuto dall’altro emisfero terrestre.
Oggi siamo abituati ad ascoltare la musica nelle varie complessità articolative con le quali si presenta, eppure l’idea del controcanto fa parte di un concetto molto più globale che come già accennato, interessa la “POLIFONIA” e quest’ultima, non costituisce poi una conquista tanto antica. Fino alla fine dell’ottavo secolo la musica era una espressione umana maggiormente individualista e dunque concepita principalmente sotto una forma “monofonica”, ad utilizzo prevalente negli ambienti ecclesiastici. Dalle celebrazioni liturgiche di epoca medioevale in poi, nasce l’esigenza di potenziare l'esibizione cerimoniale per renderla maggiormente diffusibile ed ascoltabile nelle «dispersive» cattedrali romaniche o gotiche di grandi proporzioni) e di impressionare la platea con maggiore originalità. La più antica forma polifonica ecclesiastica viene definita “Organum” e risale al X secolo come culmine di una già consolidata esperienza di canto spirituale Gregoriano. Nell’organum, due voci (la “principalis” o "cantus firmus” e l’ ”organalis”) che si esprimono in modo sillabico, attaccano all’unisono, poi lentamente si allontanano per raggiungere una distanza tonale di quarta o di quinta, per poi terminare prima parallele e poi simultaneamente nel finale. Nell’XI° secolo, fa invece il suo esordio in “Discantus”, molto simile al precedente ma, diversamente dall'Organum, prevede che le voci procedano in direzioni opposte (una verso toni acuti e l’altra verso note gravi). Tuttavia, soltanto le XII° secolo è possibile assistere ad una reale affermazione di canto polifonico con la Scuola di Notre Dame di Parigi, sotto la guida, prima, del maestro Leonino e poi, successivamente, del maestro Perotino. Entrambi si rendono autori di forme di discanti sempre più complessi e con numeri di voci superiori a due. Analoga esperienza viene documentata presso San Marco a Venezia con scuole in grado di formulare esperienze musicali, successivamente identificate con il nome di madrigale, ballata, caccia. Il contrappunto è uno stile appartenente più o meno a questo periodo storico (XIV° secolo) è consiste prevalentemente in fraseggi melodici maggiormente indipendenti nei movimenti che si incastrano perfettamente. In alcune scuole nazionali (la franco-fiamminga, la britannica e la veneziana) il contrappunto tocca vertici di virtuosismo tecnico tali da rendere difficoltosa la comprensione dei testi liturgici e capaci di generare dibattiti polemici nell’ambito clericale. Tra il XV° e il XVI° secolo si giunge all’apice del classicismo polifonico, con l’opera di Pierluigi da Palestrina e gli sfarzi multivocali e strumentali della scuola veneziana sotto l’influenza di Andrea e Giovanni Gabrieli.
Anche se molti critici musicali tentano di allineare, la nascita e l’evoluzione del canto polifonico, esattamente, con la linea cronologica storica delle civiltà occidentali, ritengo che tale conclusione possa sostenersi esclusivamente ignorando completamente la preesistenza di una ancestrale cultura musicale africana che custodisce il canto corale come valore di rito antichissimo ma non basta: testimonianze storiche precisano che anche l'antica Grecia, ad esempio, conosceva il canto parallelo ad intervalli di quarte e quinte... Siamo ormai pienamente consapevoli che sulle isole caraibiche approdarono fonti di stili musicali e canori provenienti dall'Africa, dall'Asia e dall'Europa (Francia, Spagna, Italia...). La Spagna resta uno dei principali paesi che ha incubato e dato alla luce un potenziale musicale unico e diversificato costituito da elementi derivanti dalle varie culture del passato: la musica sacra, i canti religiosi, e l’influenza araba (l’utilizzo della chitarra che diventerà chitarra spagnola) aprono le porte a ciò che accade, successivamente, in epoca rinascimentale quando il superamento geo-culturale dei confini europei (es. Francia e Fiandre) consentono un aumento dei viaggi dei musicisti sulle strade del vecchio continente, fino a favorire un reciproco arricchimento melodico e vocale attraverso vari itinerari compreso quello che conduce verso la nostra Roma. Emerge quindi l'affermazione di una lunga generazione di compositori spagnoli tra i quali citare sicuramente Francisco Guerrero e Tomás Luis de Victoria.
Proprio in Spagna, il contrappunto diventa uno stile molto utilizzato tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, partendo dal primo trattato sulla polifonia scritto da Domingo Marcos Durán (“Súmula de Canto de Organo di Durán”, 1503) che teorizza e descrive l’improvvisazione di voci consonanti nel cosiddetto «contrappunto».
Ad ogni modo, la tecnica del controcanto, per quanto antica o contemporanea possa essere, non poteva trovare nel Sud America una terra più fertile, donando alla musica locale una veste romanticissima, una espressione quasi ritualistica che non lascia indifferenti nè i cantanti stessi, nè gli ascoltatori. Quanto è soave ascoltare canti e controcanti dei vari leggendari artisti arruolati nel Buena Vista Social Club come Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Eliades Ochoa, Omara Portuondo e tanti altri interpreti del Son, così come gli innumerevoli esponenti della musica campesina, del bolero! Un altro gruppo che amo molto ascoltare proprio per l'abilità di impiego di questa tecnica vocale è Sierra Maestra: una chitarra e tre voci sono, da soli, in grado di materializzare il paradiso! Quanto è entusiasmante ascoltare l’intreccio delle voci dei duetti bachata come quelli di Juan Luis Guerra, Monchy y Alexandra. Quanta completezza nelle seconde voci registrate su se stessi da parte di Marc Anthony, Michael Stuart, Prince Royce, Toby Love… Tanta è la sublimazione che il controcanto conferisce a questo mondo musicale che abbozzare un elenco di artisti diventa un espediente troppo riduttivo e dunque mi fermo qui. Il consiglio resta sempre: ascoltate musica caraibica... ascoltate, cantante e controcantate!
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (sito creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
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Academia.edu
Il sapere.it
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Treccani.it
Una voce jazz per
disegnare ed onorare
la timba:
Issac Delgado
A cura di Dino Frallicciardi
Giugno 2021. Tutti i diritti riservati.
I n questi giorni ho dedicato un po' dei miei riposi all’ascolto del nuovo lavoro di Issac Delgado registrato con Alain Perez e l’Orchestra Aragon… (Che dire … mostri sacri!). L’album in questione è “Cha cha cha”, dedicato alla rivisitazione di brani dell’omonimo ritmo caraibico. Nei giorni successivi ho rispolverato un pò di discografia di Delgado e devo dire che più la ascolto e più mi immergo in riflessioni estatiche.
Issac Delgado è uno dei cantanti cubani più “tecnici” che abbia mai apprezzato nel mio individuale percorso di scoperta del mondo musicale caraibico. Entrato di diritto tra le stelle della musica rappresentativa dell’isola, l’artista è riuscito, parallelamente agli altri grandi nomi a lui contemporanei, ad intraprendere un viaggio (con un grado di consapevolezza curioso da comprendere...) partendo da intricati sentieri jazz, confortati da ritmiche afro, viaggiando sulle frequenze diffusive delle musica (cantata) di massa, fino ad atterrare sul suolo di un nuovo stile musicale caraibico: la Timba. E’ davvero strabiliante immaginare come sia stato possibile trasformare espedienti musicali tanto sofisticati ed attenti ai dettagli (ed alle estremizzazioni armoniche) in prodotti musicali ascoltabili in macchina, nei locali e sulle piste da ballo.
Proviamo un confronto con la nostra Italia: quanta confidenza esiste tra l'offerta del nostro patrimonio musicale jazz/fusion ed il pubblico "di massa” nella sua quotidianità? Praticamente poco o niente: solo pubblico “di nicchia”. Il questo un ruolo determinate gioca la vocazione verso la ballabilità di questi ritmi ma questo è un discorso lungo e spesso già affrontato. Eppure ricordo di essere stato nel 2002 in un taxi all’Avana nel percorso aereoporto-hotel mentre l’autista ascoltava “El punto cubano” di Issac Delgado…
Nasce l'11 aprile 1962 all'Avana. Figlio di sarto e di madre artista (cantante-ballerina), viene precocemente iscritto al conservatorio per studiare violoncello. Pare tuttavia che da giovane fosse più attratto da una carriera calcistica piuttosto che da aspirazioni artistiche, al punto di conseguire il titolo di docente in scienze motorie. Eppure molti artisti di valore fiutano ben presto i talenti di Issac, primo tra tutti Gonzalo Rubalcaba che riesce ad inserirlo nel gruppo Proyecto, denominato così proprio per la già vocazione sperimentale di rivisitare brani classici della cultura musicale cubana. Nel frattempo Issac si distingue anche per una non comune bravura nel canto. Inizia un percorso di perfezionamento nell’utilizzo dell’ugola sotto gli insegnamenti di Mariana De Gonish e successivamente presso la prestigiosa accademia di Ignacio Cervantes. Giunge dunque il momento in cui viene richiesto, nel 1983 dall’ Orquesta de Pacho Alonso. Nel 1987 entra a far parte del gruppo Galaxia ma pochi anni dopo, passa come voce nella prestigiosa orchestra N.G. La Banda di Jose Luis Cortès. Alla corte del “tosco” non poteva fare esperienza più ricca dato che il noto laboratorio musicale del famoso flautista jazz viene considerato uno dei luoghi-culla della timba.
Nel 1990 produce il suo primo album come solista “Dando la Hora” contando sulla collaborazione di Rubalcaba. Ha sempre chiesto il massimo per i suoi dischi, chiamando a rapporto i migliori musicisti/jazzisti in circolazione: Tony Pérez, Javier Caramelo Massó, Iván (Melón) Lewis, Pepe Rivero, Yaniel El Majá Matos (Paulito FG), Roberto Carlos Cucurucho Valdés, Rolando Luna, Tony Rodríguez e Issacito Delgado. Importante ricordare l'utilissima presenza del bassista Alain Perez (ora ai vertici della musica cubana), autore ed arrangiatore di alcuni suoi brani.
Issac Delgado può essere considerato un artista di altissimo spessore: si contraddistingue per la indiscussa qualità dei suoi prodotti discografici. E’ un cantante gentile, moderato nel timbro, gradevole nell’ascolto ma allo stesso tempo sconvolgente per la capacità di saltare da un tono all’altro della scala melodica in modo diretto e naturale, di passeggiare sulle terzine e sfiorare i semitoni, spesso azzardando temi e pattens insoliti, originali. Non una sbavatura, una sofferenza, un dissonanza fuoriluogo. Insomma una voce presa in prestito dai temi jazzistici per disegnare un progetto di musica che non definirei «soltanto» caraibica ma decisamente universale!
Percorso discografico: “No te compliques” (NG La Banda) (1988), “En la calle” (NG la Banda) (1989), “No se puede tapar el sol” (NG la Banda) (1990), “Dando la hora” (1992), “Con ganas” (1993), “El chévere de la salsa y el caballero de son” (1994), “El año que viene” (1995), “Otra idea” (1996), “Exclusivo para cuba” (1997), “La primera noche” (1998), “La fórmula” (2000), “Grandes éxitos” (2000), “Versos en el cielo” (2002),
“Prohibido” (2004), “En primera plana” (2007), “Así soy” (2008), “L.O.V.E.” (2010), “Supercubano” (2011), “Lluvia Y Fuego” (2019), “Cha cha cha” (2021).
Ha vissuto con la famiglia per lungo tempo in Texas, in Florida, in Spagna, ma nel frattempo ha girato per concerti i vari continenti, raccogliendo un successo planetario. Durante la sua carriera, Issac ha collaborato con personalità di spicco dell'ambiente musicale nazionale e internazionale. È stato nominato più volte ai prestigiosi Grammy e Latin Grammy Awards con album e canzoni. Uno dei concerti più emozionanti della sua carriera è stato sicuramente il Carnevale delle Isole Canarie, nel 1999 nel quale si è esibito con Celia Cruz davanti a 250.000 spettatori. Da questa esperienza nasce l’ispirazione per registrare il famosissimo brano “La Vida es un Carnaval” (del compositore argentino Victor Daniel): la canzone ha avuto un successo tale da essere scelto dall'Azienda Havana Club per pubblicizzare il suo rhum nel corso di uno spot televisivo. Tra i palchi prestigiosi che ha calpestato è bello ricordare anche il Madison Square Garden in compagnia di Celia Cruz , José Alberto El Canario e Grupo Niche . Nel 1997, a New York, incide l’album probabilmente più prezioso della sua carriera (per la sublime fusione del son cubano con le sonorità newyorkesi): “Otra Idea” registrato con il maestro Isidro Infante e altri nomi famosi del calibro di Ivan Gonzalez Melone, Joaquin Betancourt, Johnny Almedra, Papo Pipino e Ruben Rodriguez. Ha vissuto a lungo negli Stati Uniti ma nel marzo 2013 torna a Cuba in cui successivamente passerà un periodo di riposo professionale.
Issac è rimasto sempre orgogliosamente molto legato all’Avana ed alla sua gente tanto da essere riconosciuto con il termine di "El Chévere": nelle parole di Delgado non è mai mancato un richiamo al Son che secondo il cantante, resta un patrimonio imprescindibile per la nascita e la maturazione della salsa. Non si stanca mai di ricercare collaborazioni artistiche con altri colleghi. Basti ricordare sessioni con: Gilberto Santa Rosa, Pedrito Martínez, Pablo Milanés, Los Van Van, Cheo Feliciano, Víctor Manuel Adalberto Álvarez, José Alberto “El Canario”, Alexander Abreu, Descemer Bueno, Gente de Zona, Silvio Rodríguez e tanti altri. In molti dei brani dei suoi dischi figura come autore o co-autore ma canta anche tantissimo come interprete e diversi album rappresentano la rivisitazione di grandi successi. Con orgoglio mi è gradito ricordare un suo omaggio a “Quando” del nostro Pino Daniele ed a “Ci vorrebbe un amico” (“Necesito una amiga”) di Antonello Venditti. E’ un artista che non ha mai ceduto alla tentazione di vincere facile, proiettandosi in progetti musicali di consumo prioritariamente orientati verso il business: il suo amore per il jazz e per la ricerca professionale fatta di elaborazione e perfezionismo lo contraddistinguono come ambasciatore di musica con la “M” maiuscola.
Della sua discografia ho gradito particolarmente: “Cuando Lejos Estas Inalcanzable”, “Son de Cuba a Puerto Rico”, “Que te pasa loco”, “Ayudeme senora”, “La vida sin esperanza”, “Luz viajera”, “Ni la casa ni yo”, “El punto cubano”, “Mala cabeza” ,“Brindando con alma”, “Locas por el mundo”, “Corazon Corazon”, “En espuma y arena”, “Quien fuera”, Orden del dìa”, “En primera plana”, “Prohibido”, “Asi Soy” l’album tutto (“No vale la pena”). “L.o.v.e.” l’album intero; “Otra idea” album tutto; “Lluvia y fuego” tutto l’album.
Ovviamente mi è piaciuta tantissimo questa ultima produzione dedicata al cha cha cha, in particolar modo le canzoni: “La mentira”, “Canta lo sentimental”, “Cosas de la vida”. Chi vuole ascoltare musica cubana e soprattutto di qualità, non può sbagliare...
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
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Alcune informazioni sono state tratte dalla rete. Riferimenti:
Wikipedia
Eltiempo.com
Radiotelevisionmarti.com
Musica caraibica
e smartphone: una convivenza difficile
a cura di Dino Frallicciardi
Maggio 2021. Tutti i diritti riservati.
Siamo in periodo di vacanze estive e lo smartphone è il primo oggetto immancabile che ci fa compagnia, simbioticamente, nelle nostre piacevoli giornate di relax e divertimento. Eppure musica caraibica e piccoli diffusori digitali non vanno proprio tanto d’accordo quando l’ascoltatore non appartiene alla familia latina... La musica di massa negli ultimi decenni ha guadagnato una diffusione planetaria capillare grazie all’utilizzo dei cellulari. Ovunque esista uno smartphone con un collegamento alla rete, esiste la possibilità di ascolto di playlist musicali infinite… Il miracolo tecnologico di accedere istantaneamente ai repertori desiderati, può diventare, tuttavia, una pessima abitudine che rischia di mortificare alcuni generi musicali se l’interfaccia di diffusione del suono resta limitata ad un buchetto sul fianco di una piccola scatolina…
Proprio il genere latin, con la sua complessa poliritmicità (individuabile nel son, mambo, salsa, merengue, bachata, ecc) rischia di essere la principale “vittima” dell’ascolto di massa, se svilito dai piccoli altoparlantini degli smartphone. Ascoltare musica latinoamericana con insistenza, si sa, non è per tutti: bisogna essere abituati, predisposti o quantomeno appassionati anche perché si tratta di un fenomeno artistico destinato prevalentemente alla esperienza del ballo.
Il mio orecchio, abituato, percepisce immediatamente il filtro che quasi tutti i telefonini hitech, in viva voce, implementano sulle frequenze sonore, tagliando, ad esempio, la gamma dei bassi. Capita sovente di provare un senso di angoscia e sconforto nel domandarsi: «Cielo! dove è finito il basso ?!?» (strumento che amo alla follia). Senza basso il ritmo perde tutto il colore…
In sostanza la questione resta la seguente: ascoltare musica caraibica dagli smartphone la banalizza e la rende meno appetibile?
Per rispondere a questa domanda, vi racconto una sorta di esperimento che più volte ho realizzato. Mi è capitato spesso di proporre una salsa, una timba o una bachata a miei amici e conoscenti, facendola ascoltare da un semplice smartphone ed il risultato spesso non è stato per nulla gratificante, perché dopo pochi minuti, il contenuto della registrazione è stato avvertito come «lamento confuso, assordante, fastidioso…». Eppure si tratta di musica tutta suonata… eppure si tratta di forme artistiche figlie del jazz, del blues, dell’afro, della contradanza, della musica spagnola… Dunque non mi sono subito perso d’animo ed ho ripetuto l’esperimento facendo ascoltare gli stessi brani alle stesse persone ma in condizioni diverse: questa volta, in cuffia, oppure approfittando dell’impianto stereo di casa o dell’auto. Il risultato è stato sorprendente: nella seconda occasione, l’ascoltatore gradiva con stupore tutti i dettagli della canzone, riuscendo ad apprezzare anche le singole note dei vari strumenti dell’orchestra (percussioni, basso, piano, fiati…). «Fantastico! Dal telefonino sembrava un frastuono difficile da interpretare… invece si tratta di una musica proprio bella!»: questa è l’esclamazione che più volte ho sentito pronunciare al termine del mio esperimento. Dunque, spostando la mia proposta musicale in condizioni di migliore standard di ascolto, ho “recuperato” nuovi estimatori del genere.
Ho molti amici musicisti. Non a caso, tutti (in particolare il mio Maestro, Francesco Ruoppolo) quando mi concedono l’esclusiva di ascoltare le anteprime dei loro nuovi lavori originali, puntualmente mi consigliano di apprezzare il nuovo pezzo “con una buona cuffia”… Si tratta di un consiglio, evidentemente, molto saggio: perché la realtà, in sostanza è questa: pur esistendo sul mercato diversi modelli di telefonini anche più prestanti (con più altoparlanti e con adeguati decibel e/o profili di diffusione stereo), a perdere qualità di ascolto (e dunque followers) sono soprattutto le canzoni ritmicamente complesse, ovvero, prevalentemente, la musica suonata. Si, la “musica suonata”… ed aggiungo che a mio avviso, non c’è musica suonata “di massa” più bella e preziosa di quella che commercialmente viene denominata con il termine Salsa che io difendo da tutto e tutti, anche dagli smartphone!
Per concludere. Non intendo, in alcun modo, demonizzare i dispositivi digitali cellulari che rappresentano, ormai, le nostre principali finestre sul mondo ma almeno, se abbiamo voglia di far conoscere la musica che amiamo alle persone, facciamo in modo da preparare questo primo incontro in condizioni di migliore qualità di ascolto possibile, partendo da un bel paio di cuffie di accettabile fattura. Suggerisco dunque di utilizzare le cuffie o di ritagliarsi un momento di ascolto riservato come può essere l’auto, il salotto di casa o, perché no, il locale (speriamo quanto prima). Così facendo avremo dato il nostro contributo nel difendere e tutelare la reputazione della musica latinoamericana, una musica dalle spalle larghissime che non può essere costretta a comprimersi in pochi millimetri…
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
Alcune informazioni sono state tratte dalla rete.
Rey Ruiz
Storia di un
«cubano romantico»
a cura di Dino Frallicciardi
Maggio 2021. Tutti i diritti riservati.
N on esiste generazione di ballerini di salsa in linea (e non solo), che non abbia conosciuto la voce di Rey Ruiz Lui, el “Bombón de la Salsa”, un cantante che ha dato un grande contribuito al repertorio dei tanti classici memorabili per gli amanti della salsa romantica. I suoi successi più noti risultano tuttora irrinunciabili in una playlist dedicata ad un filone musicale decisamente ballabile che ha visto la sua culla tra Portorico e New York pur se consideriamo che Rey è di radice cubana. Quest’ultimo aspetto, va dunque sottolineato: benché sia nato all’Avana, in Cuba (21 giugno 1966), le esperienze musicali formative più significative, il cantante le ha incontrate nel periodo trascorso a Portorico ed a Miami dove ha potuto assorbire il meglio delle correnti musicali del suo periodo di giovane artista.
Studia musica al Conservatorio dell’Avana. Manifesta precoce indole artistica, sfruttando, già in giovane età, ogni opportunità per farsi conoscere dal pubblico: dalla TV dei bambini alla musica dal vivo, militando nelle orchestre Riverside e Los Dadas, fino ad approdare al prestigioso cast del Tropicana Cabaret. Fu proprio grazie a quest’ultimo incarico che ebbe la possibilità di varcare in confini nazionali, nel 1989, in tournee verso Santo Domingo ed in questo contesto, di allacciare rapporti con addetti ai lavori in grado di catapultarlo nei templi musicali di Miami, città che il cantante ha sempre definito come la “città più settentrionale di Cuba”. Probabilmente uno dei suoi momenti più gloriosi è iniziato nel 1987 quando registra il suo primo CD “Rey Ruiz” con il quale ottiene un disco di platino e vari premi tra i quali Billboard e Lo Nuestro. Il cantante riesce a conquistare in modo particolare, con il suo secondo album “Mi Media Mitad” (1993), anche il pubblico colombiano, verso il quale ha sempre nutrito maggiore seguito e riservato affetto. Da questo momento in poi, parte per Rey Ruiz la nuova esperienza portoricana, allorquando, nel periodo che va dal 1992 al 1999, l’artista si stabilisce sull’isola della capitale San Juan. In Portorico, nella terra della bomba e della plena, il cantante gode della presenza di numerosi esponenti della salsa romantica e della già apprezzata salsa ricca della nuova stagione (salsa gorda) riuscendo ad attingere alla fiorente produzione artistica di artisti noti del calibro di Jerry Rivera, Victor Manuelle, Luis Enrique e poi: Gilberto Santa Rosa, Willie Gonzales, Eddie Santiago, Lalo Rodriguez, Tito Nieves, Frankie Ruiz. Da questo momento in poi, ogni sua produzione si ripete nella conquista di premi di pari prestigio di quello ottenuti con i primi album, soprattutto in Miami, Portorico e Colombia: "En cuerpo y alma" (1995); "Destino" (1996); "Porque es amor" (1997); "Ya ves qué soy" (1998); “Fenomenal" (2000); "Mi Tentación" (2004); "Corazon arrepentido" (2006); “El Mensaje” (2009); "Mis Preferidas" (2010); “Estaciones” (2015).
Rey Ruiz è apprezzato principalmente per sue qualità vocali, particolarmente raffinate, puntuali ed ordinate con l’intonazione, ma nello stesso tempo calde e travolgenti. E’ una musica che scorre dolcemente e che racconta, in modo appassionato, i temi dell’amore raccontati partendo da ogni prospettiva di relazione. La sua musica, così come la salsa romantica in genere, rompe un po' gli schemi degli altri stili, basati su più rigidi temi armonici, come ad esempio quelli del guaguanco, distesi su giri di accordi in minore, eseguiti su strumenti musicali tendenzialmente canonici. Nel suo profondo legame con la Colombia, ha spesso inserito nelle sue canzoni, elementi della cultura vallenata e della cumbia. Personalmente, amo la musica in genere ed in modo particolare tutto quello che nasce dalla cultura caraibica, eppure ammetto che la corrente musicale di salsa in questione non mi manda sempre completamente in estasi. Sono per natura molto attento agli arrangiamenti di un brano, ed alla capacità di stuzzicare l’attenzione dell’ascoltatore, dunque, nella fase di ascolto, mi lascio elettrizzare maggiormente dal jazz afrocubano, dal mambo, dal guaguanco oppure, perchè no, dalla timba. In tutta sincerità, se una parte di salsa romantica si lascia ballare benissimo, non si lascia, tuttavia, ascoltare con lo stesso coinvolgimento. Forse questa reazione emotiva si spiega in parte, con la similitudine con la quale gli arrangiamenti di un album si susseguono con ricercata somiglianza. Quella appena espressa, resta tuttavia una mia personalissima osservazione e con ciò non voglio in alcun modo ridimensionare una parte stessa della mia vita (la salsa romantica), tantomeno un grandissimo artista come Rey Ruiz che ascolto quasi tutti i giorni e che <<convoco>> sul mixer quando voglio ballare “in linea”. Suoi mitici successi sono: “No me acostumbro”, “Mi media mitad”,”Creo en el Amor”, “Si te preguntan”, “Aparentemente”, “Mienteme otra vez”, “Luna negra”, “Perdoname”, ”Si tu te vas”… Posso dire che quelli che ho ascoltato con maggiore interesse sono le interpretazioni di: “Tuyo”, “Fuiste mia”, “Te vas arrepentir”, “Mi tentation”, “Corazon arrepentido”, “Me equivoque”, il duo con Srta Dayana, “Cuando el amor”, “Amor bonito”, “Prometiste volver”, “Lo mejor de mi”. A dire il vero, le mie piccole perplessità, trovano in parte consolazione proprio nelle parole pronunciate dallo stesso Ruiz in varie interviste, durante le quali rispondeva alle domande di giornalisti che cercavano di comprendere se il cantante sentisse o meno, la necessità di rinnovamento del suo stile musicale presentato al pubblico durante una carriera tanto lunga. Rey rispondeva che quello che funziona è in realtà quello che alla platea piace e pertanto, non vale la pena cambiare formula, pur rispetto ad un periodo lavorativo ventennale.
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido (creato nell'ottobre 2019). Tutti i diritti riservati.
Alcune informazioni sono state tratte dalla rete. Riferimenti:
www.cajondehistorias.com
www.efe.com
Basso e Contrabbasso nella Latin Music:
un culto dalle proporzioni spesso sottostimate.
a cura di Dino Frallicciardi
Marzo 2021. Tutti i diritti riservati.
Quando in musica si parla di basso (strumento musicale) o più specificamente di contrabbasso, è intuibile aspettarsi che l’immaginario collettivo diriga la propria attenzione verso bassisti, spesso scapigliati e vestiti in modo estroso, dei gruppi che hanno scritto la storia del rock; oppure è facile che il pubblico ricordi i frizzanti bassisti dei gruppi pop-disco che con dei “riff” indimenticabili hanno fatto ballare il pubblico nelle discoteche; oppure ancora i musicisti di contrabbasso blues, soul, jazz immersi nelle loro, quasi estatiche, sessioni d’improvvisazione. Tanti sono i musicisti che con la loro ricerca e bravura hanno restituito a questo strumento una immagine gloriosa, ben diversa da come spesso si presenterebbe, e cioè modesto, discreto, spesso inosservato… Basti ricordare: il celebre Jaco Pastorius, oppure Victor Wooten, Duff Mc Kagen (Guns’n’Roses), Cliff Burton (Metallica), Paul Mc Cartney (Beatles), Roger Waters (Pink Floyd), Steve Harris (Iron Maiden), Flea (Red Hot Chilli Peppers).
Il basso è uno strumento musicale in grado di produrre suoni del registro grave. Sul suo conto si racconta che sia un elemento orchestrale quasi invisibile: se c’è, non è facile percepirlo subito ma se non c’è, la musica appare nuda, scheletrizzata, smarrita.
Eppure, nonostante la premessa fatta, il basso (inteso come strumento cordofono) all’interno del panorama latinoamericano rappresenta un culto molto più diffuso e celebrato di quanto si possa immaginare. In modo consensuale con l’intera storia della musica latina, il basso è finito per diventare uno strumento fondamentale, arrivandoci attraverso i percorsi tracciati dalle stesse, diverse, radici fondanti: ci è arrivato attraverso gli antichi strumenti cordofoni africani, così come attraverso il contributo del jazz o ancora attraverso il contributo del blues, del funky e del rock.
Nella sua storia, il basso ha subito una lunga serie di lente trasformazioni. Potremmo partire dagli antichi strumenti a corda dei popoli africani e mediorientali come l’halam o la kora senegalese o il gembrì del popolo Gnawa o lo imzad dei Tuareg fino a giungere al XVI secolo (alcuni critici ritengono anche secoli prima), allorquando la famiglia dei violini che tanto incantava l’Europa intera, partoriva uno strumento ben più grande, inizialmente inteso come “violino o viola di basso” (dai suoni più gravi) pensato per dare “ritmo” ai ballerini delle danze nobiliari, poi diventato violoncello e contrabbasso. Inizialmente quest’ultimo veniva suonato sfregando sulle corde metalliche un arco montato con crine di cavallo. Agli inizi del ventesimo secolo, il jazz prende in prestito il contrabbasso dalla musica classica: qui, oltre ad assumere una funzione ritmica (pizzicandolo con le dita), trova spazio anche come solista in sessioni di improvvisazione, le più celebri delle quali, passano tra le dita di nomi altisonanti come: Charlie Haden, Paul Chambers, Sam Jones, Ray Brown, John Patitucci, Dave Holland. I più moderni bassi elettrici nascono intorno agli anni ’50 quando, per far fronte al crescente “sovrastamento acustico” da parte degli altri strumenti (in primis batteria, percussioni e fiati) a scapito dei limitati decibel della cassa acustica del contrabbasso, si trovava il modo di amplificare essenzialmente la vibrazione delle corde con appositi trasduttori analogici (piastre). Vari furono i primi prototipi a metà del secolo scorso ma il più noto è certamente il leggendario 4 corde di Leo Fender. Pur tuttavia, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, mentre i bassisti dell’America occidentalizzata utilizzavano quasi prevalentemente Fender, quelli latini mostravano piuttosto disponibilità ad adottare e consacrare un altro modello, o meglio un contrabbasso elettrico di dimensioni più contenute: l’”Ampeg Baby Bass”. Quando si parla di basso negli ambienti latin, non si può non fare riferimento a questo strumento diventato un vero e proprio simbolo del genere. In realtà l’avvento di questo modello era iniziato qualche anno prima con un suo immediato predecessore inventato nel 1958 dai fratelli Dopyera. Questi erano due americani di origine slovacca che avevano realizzato un prototipo in fibra di vetro che prendeva il nome di “Zorko” e montava corde in fibra di vitello o di nylon. Pochi anni dopo, i Dopyera vendettero il brevetto alla azienda Ampeg, la quale utilizzando materiali diversi (prevalentemente plastici), nel 1961 lo riprodusse come Ampeg Electronic Bass (o Ampeg Baby Bass). La scelta dei latini di preferire il Baby Bass al Fender era basata soprattutto sulla capacità del primo di emettere un tipico suono dalle caratteristiche nette, profonde e decise, quasi come se fosse un colpo di cassa mista a toni gravi, ideale dunque per interpretare le cadenze molto ritmate. Un’altra caratteristica è la capacità del contrabbasso di autosostenersi in posizione verticale, dando la possibiltà al musicista di alleggerire la mano sinistra e di lavorare in piedi. Dunque, il contrabbasso, si integrò perfettamente nei generi sudamericani noti come Son, Bolero, Chacha, Samba, Tango, Mambo. Di lì a poco, la massiva contaminazione occidentale, introdusse anche il basso elettrico in formazioni dedite alla musica Dembow, Reggae, Timba, Salsa, Bogaloo, Merengue, Bachata, Reggaeton, Calipso, Souk. Basti pensare che nelle attuali orchestre latin in cui è impiegato un basso elettrico, i musicisti lo suonano con stili di esecuzione decisamente arricchiti da tecniche ormai più che sperimentate e diffuse come slapping, tapping, ghost notes, armoniche ecc. Questo arricchimento tecnico è facile osservarlo nelle moderne formazioni Timba, Bachata o Merengue.
E’ frequente notare, inoltre, che i bassisti latinoamericani contemporanei siano soliti utilizzare bassi con più di 4 corde per soddisfare la necessità di toccare note molto gravi o toni acuti richiesti dalle tipiche escursioni orchestrali e soliste.
La salsa è senza dubbio il genere più amato dal pubblico di ascolto sudamericano. Nella salsa (nel Son e nel Mambo) il coordinamento basso-clave è un pilastro della tecnica musicale caraibica: il cosiddetto concetto di <<dominanza della clave>>. La clave, come noto, è la base ritmica del son e della salsa. Il basso di conseguenza è tenuto ad eseguire un accompagnamento decisamente ordinato sui tocchi della clave con un caratteristico portamento conosciuto come “Tumbao”. A quest’ultimo poi, si aggiunge l’intervento di congas, timbal, guiro, maracas fino a completarsi nel cosidetto “Tapete” ovvero la spina dorsale ritmica del brano sul quale si appoggiano tutti gli altri strumenti.
Dunque il basso nei paesi in cui prevale la musica latinoamericana è uno strumento musicale molto più diffuso di quanto si possa immaginare e per sancire definitivamente questa tesi, facciamo volentieri alcuni nomi. Innanzitutto Islael Cachao Lopez, contrabbassista cubano, noto per essere considerato tra i padri fondatori del mambo. Juan Formell famosissimo bassista cubano nato nell’orchestra di Elio Revè e poi fondatore dei Los Van Van. Carlos Del Puerto fondatore di Irakere. Ignacio Pineiro, contrabassista fondatore del Sexteto Nacional. Inoltre, per lo stesso motivo, possiamo ricordare tantissimi altri grandi nomi: Bobby Valentin (del quale ho parlato in un mio precedente articolo), Oscar D'Leon, Andy Gonzalez, Bobby Rodriguez, Salvador Cuevas (FANIA), Jorge Reyes, Feliciano Arango (NG La Banda). Nomi relativamente più recenti sono Alain Pérez, Pedro Pablo, Joel Domínguez… insomma, bisogna chiudere questa carrellata per il timore di dimenticare nomi importanti che sono davvero tantissimi e che hanno reso “el bajo”, uno strumento fondamentale ed una icona delle orchestre di musica caraibica.
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido, creato nell'ottobre 2019. Tutti i diritti riservati.
Alcune informazioni sono state tratte dalla rete.
Chi salverà l'arte del canto?
Io dico: le voci dei caraibi.
a cura di Dino Frallicciardi
Marzo 2021. Tutti i diritti riservati.
L 'altra sera ho deciso di passare qualche ora in poltrona, bere un goccio di amaro ed ascoltare buona musica per godere di un po' di riposo meditativo al termine di una lunga e dura giornata di lavoro. La playlist del lettore si è diretta sul brano “Si no te quieres tu”, scritto da Juan Formell (da “Arrasando”, 2008). La canzone, magistralmente interpretata dal maestro Mayito Rivera mi ha condotto piacevolmente verso una serie di riflessioni. Ogni volta che ascolto quest'opera percepisco un'emozione sempre rinnovata, sbalordendo al cospetto della caratura tecnica di altissimo livello dimostrata da Mayito e giungendo decisamente alla conclusione che si tratta, a pieno titolo, di una performance "da manuale": dovrebbe fare scuola a chiunque intraprenda un percorso di formazione canora. E’ incredibile la facilità con la quale il cantante passeggia tra un salto cromatico e l’altro: il modo di accarezzare le note, la sapienza di saper dosare la giusta intensità ed i corretti crescendo.
Ritengo, senza ombra di dubbio che cantare Salsa, Timba, Bachata sia un esercizio per pochi (fatte salve le voci di generi squisitamente tecnici come ad esempio jazz, soul, opera lirica) e sarei davvero curioso di poter sottoporre gran parte dei blasonati cantanti "occidentali" dei generi (con tutto il rispetto) melodico, ballata, pop, rock, blues rap, hiphop, trap ad una simile prova interpretativa… convinto di riuscire a metterli in sicuro imbarazzo. La naturalezza con la quale il nostro amato cantante cubano raggiunge note acute piene, senza eccedere in glissati, si sublima, infine, nel momento in cui si concede al "soneo" e cioè alla sezione della canzone più tipica e singolare di questa scuola d'arte canora. Durante il passaggio conclusivo del brano son/salsa/timba (“montuno”), il solista improvvisa il proprio soneo con parole ispirate al tema dominante, ma attenzione (e qui viene il difficile): a differenza del <<rappare>>, il sonero, improvvisa non <<parlando>> ma <<cantando>>, volando sulle note delle scale musicali (di raro si ripete più volte consecutive una stessa nota), ispirandosi a pattens armonici più o meno caratteristici, proprio come se al posto dell'ugola avesse uno strumento a fiato! Quanti cantanti al mondo sono abili nell'improvvisare contemporaneamente parole e scale musicali? Beh... credetemi: pochi. I "soneri" sono cantanti unici nel panorama musicale: i soli in grado di incarnare questa tradizione che per livello di difficoltà, metterebbe a dura prova anche le voci più premiate delle potentissime classifiche filo-occidentali.
Che la musica di consumo di massa stia impoverendo, globalmente, il potenziale tecnico delle corde vocali “vip” è un dato di fatto. Di una canzone conta sempre più, mediaticamente, il potere provocativo ed emozionale piuttosto che l'abilità e la raffinatezza interpretativa ed esecutiva. Il grande ciclone trap poi, per quanto accattivante, sta facendo dimenticare ai nostri giovani i concetti di intonazione ed espressione (ed anche in questo caso, il fenomeno è meno riscontrabile nei cantanti trap-bachata che mantengono invece standard di alta qualità). Di contro, quel preziosissimo, isolato, laboratorio musicale caraibico che in una alchimia ha fuso il jazz con i ritmi africani, nell’obbligato isolamento geopolitico è riuscito a conservare sufficientemente il principio sacro e l'orgoglio dell'essere innanzitutto “capaci di…” e dunque bravi non tanto nel raccontare la voce ma farla suonare al pari di uno strumento musicale. I cantanti sudamericani aspirano a suonare la propria voce al 100%, non al 20% commerciale in versione 2.0…
Lungi da me dal voler inchiodare su una classifica, con facili stereotipi o luoghi comuni, generi musicali di serie A o di serie B: la musica è bella tutta, soprattutto quando è in grado di far sognare, in qualsiasi forma, gli esseri umani. Eppure, se esiste il rischio di una deriva di qualità dell’arte del canto, beh, qualcuno può ancora salvarla e si tratta dei cantanti caraibici. Le voci dell’America Latina salveranno l’arte del canto se riusciranno a conservare il loro testamento morale e la loro tradizione nel tempo così come è stato nel secolo scorso: per me, lo ripeto senza falso fanatismo, i migliori al mondo, perché completi tecnicamente di tutto, interamente immersi nella giusta veste empatico-interpretativa e, da sempre, tranquillamente consapevoli ed umili rispetto al bagaglio tecnico del quale sono puntualmente dotati.
A cura di Dino Frallicciardi (estratto dal Blog "Que Rico Sonido", creato nell'ottobre 2019. Tutti i diritti riservati) https://quericosonido.wixsite.com/quericosonido.
Polo Montanez:
terra, musica e sentimento
a cura di Dino Frallicciardi
Febbraio 2021. Tutti i diritti riservati.
Polo Montañez è senza alcun dubbio uno degli artisti che hanno maggiormente consentito, con la loro trasparenza d'essere, di raccontare, con la musica, i reali sapori della cultura rurale cubana. Si tratta di un musicista-compositore-cantante venuto dal mondo naturalistico dell’isola che non ha mai dimenticato, ne perso, la sua identità di “guajiro”: erede indiscusso della musica campesina, del ciclo della nueva trova, impaziente di raccontare l’orgoglio della propria terra al mondo intero. Un mito semplice ma allo stesso tempo variopinto che ha fatto della vita contadina, il suo teatro di esordio per poi giungere, gradualmente fino al grande pubblico. Un successo tanto rapido quanto breve, conclusosi dopo pochi anni a causa di un assurdo e tragico incidente stradale.
Il suo vero nome è Fernando Borrego Linares, nato il 5 giugno 1955 nella fattoria di El Brujito nel paradiso verde di Pinar del Rio. Trascorre gran parte della sua esistenza presso un complesso turistico chiamato Las Terrazas, situato tra le montagne e confortato dal canto della natura, nel bel mezzo delle coltivazioni di banane, caffè e tabacco. Cresce rispettando sempre con grande diligenza i doveri lavorativi che richiedeva lo stile di vita di coltivatore, assecondando le richieste del padre ma anche attingendo alla saggezza della tradizione musicale tramandatagli da quest’ultimo. Così crescendo e lavorando, imparava a suonare la chitarra ed altri strumenti che conosceva spontaneamente nelle mura domestiche, come tres, tumbadora ed altre percussioni in modo quasi naturale. L'approccio con gli strumenti e con la musica era un appuntamento quotidiano, finchè, ad un certo punto della sua ricerca, provava a comporre le sue prime canzoni. Chi lo ha conosciuto lo descrive come uomo semplice, sensibile e corretto con tutti: amante e rispettoso della natura, rimasto sempre persona umile e prodiga nell'aiutare il prossimo.
Polo iniziava ad esibirsi durante le feste campestri insieme al fratello, al padre suonatore di fisarmonica e ad altri amici e parenti, dilettandosi nel repertorio classico cubano. Da qui la successiva appartenenza a vari collettivi (gruppo Artemisa, Gruppo Pleyade) fino a fondare il cosiddetto “Gruppo Sorpresa”, poi diventato “Septeto” e poi, ancora, “Cantore del Rosario” dell’Hotel Moka (Complesso turistico Las Terrazas). Con l'aumentare della loro attività artistica, Polo ed i suoi musicisti intraprendevano la gestione anche di altre strutture turistiche limitrofe come Rancho Curujey e il Cafetal Buenavista. Nel 1999 avviene l’incontro con l’impresario capoverdiano José da Silva (etichetta francese Lusafrica) che in cerca di un gruppo cubano da lanciare, propone un lungo contratto a Polo che da questo momento diventa cantante solista (Polo y su grupo): Polo “Montanez” per la sua simbiosi con le montagne dalle quali proveniva. Nel 1999 nasce il suo primo album, "Guajiro natural", registrato all'Avana. Le sue melodie ottengono subito un successo enorme in Europa ed in Sudamerica, in particolare in Colombia. Nel 2002 esce, sempre per la stessa etichetta, il suo secondo disco,"Guitarra mia" destinato al pubblico che lo aveva già apprezzato e pertanto si dimostra una conferma su scala mondiale. Montanez non aveva penuria di canzoni da offrire, considerato che nel percorso di artista autodidatta non noto, aveva scritto quasi un centinaio di brani. Dal 1999 al 2002 sostiene un tour latinoamericano e mondiale in una esplosione di concerti che si susseguono con entusiasmante progressione, vedendo spesso collaborazioni con altri artisti famosi dello stesso genere come ad esempio Compay Segundo. Per due anni consecutivi suona anche in Italia in varie città.
Purtoppo, proprio quando Polo diventava un colosso della musica cubana, trovava la morte il 26 novembre 2002 in seguito ad un tragico incidente stradale che comportava anche la scomparsa del figlio della sua ultima compagna.
La musica di Polo Montagnez si presenta senza enfatizzazioni fuorvianti: è nuda, tradizionale, vera. Uilizza strumenti tipici della cultura musicale cubana, suonati con mani esperte che allo stesso tempo accarezzano i romantici elementi della natura come la flora, la fauna, il legno, il carbone, la paglia fino quasi a avvertirne la presenza in ogni nota della melodia. Non predilige uno stile in particolare ma dosa ed onora ogni genere nel giusto modo: changui, son, guaracha, bolero...raccontando storie d'amore ed altre favole sentimentali, in un corteo tanto mistico da riuscire ad attrarre verso di se la simpatia di tutte le età, dai bambini agli anziani.
La sua prima canzone da cantautore pare sia stata "Este tiempo feliz" scritta negli anni 70. Le sue canzoni più ascoltate nel mondo ed in particolare in tutta l'America Latina son senza dubbio "Un monton de estrellas" e "Flor palida". La prima pare fosse stata dedicata a Loida Booser, una delle ultime donne che Fernando aveva amato tanto ma nella realtà, lei, avrebbe deciso di lasciare Cuba in cerca di fortuna all'estero, deludendo le aspettative del cantante che in un lungo testo della canzone mette alla luce tutto il sentimento ed il dolore che aveva provato. Adys Garcia, la sua ultima compagna, durante alcune interviste, si attribuisce invece, la dedica della canzone Flor palida. Quest'ultima è stata poi rielaborata dall'artista Marc Anthony in versione salsa, in memoria di Montanez.
Di fatto Polo Montanez si è affermato come il terzo cubano a ricevere un disco d'oro e di platino («Guajiro Natural», più di 40.000 copie) conquistati in Colombia. Di seguito riceve la Targa illustre "Figlio di Pamplona"(Spagna, 2001), poi il Premio "Cubadisco Distinction" (Havana, 2001), Premio "Disco d'oro Cubano" (Cuba, 2002). Anche l'album Guitarra mia vince un Premio Cubadisco nel 2003.
L'incidente fatale dell'artista fu all'epoca sofferto dall'intera popolazione nazionale al punto che si racconta di un interesse verso l'ospedale, durante il ricovero, dello stesso Fidel Castro. La morte fu accolta come lutto nazionale ed il complesso Las Terrazas diventava una vero e proprio centro di pellegrinaggio per i tantissimi estimatori che lo omaggiavano con enorme affetto. Oggi quei luoghi sono gestiti dal fratello di Polo che ha realizzato un museo con i principali cimeli del cantante che riceve ogni anno tante visite di appasionati e turisti.
Continueremo per sempre ad ascoltare e cantare Un monton de estrellas, senza smettere di immaginare che tra tutte le stelle che brillano lassù nel cielo, brilla anche, ardentemente, quella del guajiro natural..
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido, creato nel febbraio 2021. Tutti i diritti riservati.
Alcune informazioni sono state tratte dalla rete.
I "Dos Locos Perdidos
della bachata"
(Monchy y Alexandra)
a cura di Dino Frallicciardi
Febbraio 2021. Tutti i diritti riservati.
Monchy y Alexandra sono senza dubbio due colossi del genere musicale latinoamericano bachata, di diretta origine dalla tradizione della Repubblica Domenicana. Si tratta di un duo appartenente alla mirabile famiglia di artisti che sono riusciti a rinnovare completamente lo stile classico, fino a quel momento, dominante nell'isola caraibica, celebrato da interpreti prevalentemente maschili, con cadenze tipicamente strazianti perchè espresse con il noto “lamento” che deriva dal racconto del ferimento sentimentale. Si parte da questo desiderio di rinnovamento per andare verso una prospettiva maggiormente melodica, contornata da sfumature decisamente romantiche e soprattutto sfruttando l'integrazione con sonorità rock-blues.
Chi nell’ultimo ventennio non ha mai ballato una bachata sulle note di una canzone di Monchy y Alexandra? Praticamente un classico!
Tutto comincia nell’anno 1998 quando i produttori musicali Mártires De León e Víctor Reyes (etichetta J&N) decidono di affidare al giovane cantante Ramón E. Rijo (La Romana, 19/09/1977) in arte Monchy, il rilancio di un famoso brano colombiano vallenato, “Hoja en blanco” in versione bachata. Monchy era un musicista cantante che era riuscito gradualmente ad inserirsi nel filone degli artisti bachatazos locali. Nell’immaginare di affiancargli una voce femminile, i produttori intraprendono la ricerca della voce femminile più adatta a questo progetto, fino ad approdare, dopo una lunga serie di audizioni, verso l’arruolamento di Alessandra Cabrera, in arte Alexandra (Santo Domingo, 19/10/1978).
L’uscita di questo brano nell’album del 1999 “Hoja en blanco” conquista rapidamente il consenso del pubblico amante del genere e non solo: passando per Miami e poi da lì in tutto il mondo, vendendo 500.000 copie e raggiungendo il primo posto della chart USA Billboard. Il successo è tale da suggerire ai produttori di non limitarsi ad un'unica esperienza, ma di mantenere stabilmente il duo artistico per rilanciarlo verso una prevista, brillante carriera.
Di fatto, tuttavia, la loro storia si è dimostrata brillante ma nello stesso tempo si è rivelata anche molto breve.
Nel 2002 esce “Confeciones” contenente l’indimenticabile “Dos locos” che ha sbancato nelle piste di ballo latine di tutto il mondo: è l’anno in cui Monchy y Alexandra si esibiscono al Madison Square Garden di New York (primo gruppo bachatero a calpestare il prestigioso palco) e vincono un premio Billboad. Nel 2004 è il momento di “Hasta el fin” con la splendida, omonima, canzone: l’album contiene inoltre uno dei brani più rappresentativi del gruppo dal titolo “Perdidos” e vanta prestigiose collaborazioni partendo da Kike Santander, Daniel Santacruz fino alla London Philharmonic Orchestra. Nel 2006 è il momento di “No es una Novela” ritenuta la canzone della piena maturità artistica del gruppo, raggiungendo traguardi come la nomination al Latin Grammy Award nella categoria “Miglior album tropicale contemporaneo”, inoltre conquistando Lo Nuestro Awards e Casandra Awards. Con i loro concerti girano l'America Latina, l'Europa e gli Stati Uniti in tournée di grande successo.
Nonostante tutto, purtoppo, la loro natura di duo “costruito in laboratorio” ha fatto si fa si che Monchy ed Alexandra, così come da loro stesso ammesso, non avessero mai nutrito un rapporto professionale più profondo di quel minimo necessario per necessità lavorative: mai scoppiato un feeling di ritrovata, orgogliosa, appartenenza identitaria. La mancanza di una reale solidità di vedute li conduce a decidere, nel 2008 di separarsi professionalmente per intraprendere nuove carriere individuali. Non sono mancate anche pubbliche esternazioni e polemiche, in particolare da parte di Monchy che ha attribuito, in una intervista, la responsabilità di questa scelta ad Alexandra che avrebbe messo su, con il marito chitarrista, Edilio Paredes Jr. (figlio dell’omonimo bachatero domenicano) un ambizioso progetto discografico.
I fans di MyA, hanno provato una grande emozione e nutrito speranze di riavvicinamento quando nel 2019 è circolata la notizia di una nuova uscita davanti al grande pubblico in collaborazione con Romeo Santos per registrare il brano “Anos Luz” all’interno dell’album “Utopia” presentato il 5 settembre 2019. In realtà lo stesso Santos ha fugato ogni dubbio, sulla ricostituzione della coppia, raccontando proprio la difficoltà che si era accollato di lavorare sulla canzone interagendo con i due cantanti separatamente.
Di seguito Monchy, dopo aver provato a rifondare il duo con la cantante Nathalia, decide di presentare, nel 2020, il suo primo album intitolato “Primogenito” in cui si cimenta da solista, autore e musicista.
In conclusione, la pur breve carriera di Monchy y Alexandra si è dimostrata un potente apripista per consacrare, indubbiamente, il magnifico duo come leggenda della musica bachata ed inoltre per sensibilizzare il pubblico mondiale ad avvicinarsi, di li a poco, a fenomeni dello stesso genere artistico come gli Aventura, Prince Royce, Toby Love e tanti altri!
A cura di Dino Frallicciardi per Que Rico Sonido, creato nel febbraio 2021. Tutti i diritti riservati.
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